Gli Inti Illimani sono un gruppo vocale e strumentale cileno che nasce dal movimento della Nueva Canciòn Chilena. Tale movimento, nato in
Cile negli anni sessanta, rielaborando il folklore
latinoamericano, usa la musica come arma di lotta sociale e politica.
Erano un simbolo rivoluzionario negli anni
’70, quando mia madre aveva l’età mia di adesso. La sua generazione non può non
ricordarsi quello slogan che veniva urlato per le strade durante le
manifestazioni: 'El pueblo unido jamas seràs vencido'! Si tratta del titolo di un brano militante di Sergio Ortega, reso famoso in Italia proprio dagli Inti Illimani che ci hanno
composto sopra una canzone.
Costretti all'esilio a seguito del golpe cileno di Pinochet del 1973, si rifugiano
in Italia, dove viene loro concesso il diritto di asilo politico. Vivono prima
a Genzano di Roma e poi si spostano nella capitale fino al 1988. Nel frattempo
si fanno strada, un concerto dopo l’altro, ma non tengono il ricavato dei loro
successi per sè, bensì mandano quasi tutto- il 90%- in patria per finanziare le
campagne per la restaurazione della democrazia.
Ernesto, un intillimano dai capelli bianchi,
ieri sera 04/09/2013, seduto sul bracciolo del divano, parlava con me, mia madre, mio
padre e il direttore d’orchestra padrone di casa, nonché nostro vicino del
piano di sotto. Noi tutti, seduti sul divano, ascoltavamo attentamente le sue
parole e allo stesso tempo ci sentivamo perfettamente a nostro agio a
interloquire con quell’uomo che aveva fatto la storia.
Tutti loro si caratterizzano per la loro vivacità
e informalità, dopo poche parole sembra già di conoscerli da una secolo. Hanno
un sorriso sincero, di chi ha sofferto a lungo e sa quali sono le cose importanti
della vita. Ernesto ci dice che il loro soggiorno italiano non è stato facile,
perché all’inizio vivevano in un paese, a Genzano, senza neanche potersi
comprare la casa in cui vivevano.
‘Noi davamo tutto via, mandavamo tutto in
Cile, tutto’, ricorda. E poi si mise a ripensare a tutte le occasioni di
investimenti in case, che non avevano saputo cogliere. E infine, con un misto
di rimpianto e di autocompiacimento dice: ‘in fondo, nella vita, l’importante
non è comprare’. Il padrone di casa, prontamente, risponde: ‘infatti,
l’importante è vendere’. E ride.
A questo punto vi starete chiedendo come mai
il mio vicino di casa sia amico di un gruppo così famoso. Un giorno di tanti
anni fa quando aveva dieci anni era stato portato dallo zio a sentire un loro
concerto. Si innamorò a tal punto di quei suoni da comprare quegli stessi
strumenti -facendo la cresima apposta per ricevere i soldi dai parenti- e
fondare un gruppo ad immagine e somiglianza degli Inti Illimani, con il quale,
per anni, ‘si è arricchito’.
Lo scherzo del destino ha voluto che, dopo
tanti anni, il direttore del
conservatorio di Napoli un giorno lo chiama per proporgli di dirigere un gruppo
cileno un po’ particolare, dal nome altrettanto strano che inizia per ‘Inti’…lui
accetta. E, pur avendo un ‘terribile’ sospetto, non svela il suo segreto, ma fa
finta di non conoscerli.
Prima di quel momento, effettivamente, non
li aveva mai conosciuti di persona. Basta quell’occasione per fare nascere tra
loro un amore così profondo e sincero da impegnare quei rivoluzionari a venire
ogni anno, verso i primi di settembre, a suonare a casa del loro amico. Per
questo mia madre, ignara di ciò, l’anno scorso, sentendo della musica, si
affacciò su Piazza Dante, che generalmente è piena di immigrati, e pensò tra
sè: ‘accipicchia che bravi questi extra-comunitari!’.
‘Questi extra-comunitari’, originariamente
sei ma poi diventati sette, hanno effettivamente facce esotiche da indios, in
particolare Josè il cantante, nonchè strumentista. Il suo strumento non è un
flauto bensì uno strumento a fiato composto da canne di bamboo disposte in
scala e unite da fibre vegetali. Per essere precisi non ne ha solo uno, ma
vari, che alterna con velocità e suona con grande maestria.
Ma l’anima del gruppo è Horacio Salinas Halvarez, chitarrista e compositore. Basso,
con pochi capelli e una stazza decisamente superiore alla norma, ha un fascino
tutto suo. Quando sta sulla sedia con la chitarra in mano dà proprio
un’immagine di completezza. Abbraccia la chitarra come fosse la sua donna e la
tiene salda, solleticandole la pancia con grande disinvoltura e abilità.
Il movimento delle sue dita è ipnotico, sicuro e
regolare, e sembra quasi che stia maneggiando una materia invisibile. Ha una
sorprendente manualità. Guarda in basso mentre suona, tiene lo sguardo
concentrato. Sente la musica da dentro e canta, con una voce calda e grave da
uomo dall’ampio torace, melodie nostalgiche di chi non può tornare a casa. Alla
fine però a casa c’è tornato, nell’88.
La loro è una musica sperimentale che spazia dalla musica andina alla canzone politica; altrettanto sperimentali sono gli strumenti che usano.
Affiancano strumenti provenienti dalla tradizione popolare come chitarra, tiple, cuatro, quena, bombo leguero, zampogna, maracas a strumenti provenienti dalla musica colta come violoncello, contrabbasso e violino.
Nelle loro canzoni anche la componente
vocale è notevole. L’altra sera a cantare con loro c’erano dei ragazzi giovani,
all’incirca della mia età, che hanno mostrato una duttilità tale da passare
dalla voce alla chitarra al flauto traverso con grande facilità. Gli Inti
Illimani, tuttora attivi, cercano di rimanere immortali attraverso le nuove
generazioni. Questi ragazzi saranno gli inti Illimani del futuro.
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