Ho conosciuto Bruno Citoni a York esattamente un anno fa, tramite l'Italian Society, di cui ero la chair. La prima coincidenza è stata scoprire non solo che abitavamo entrambi a Roma, ma nello stesso quartiere, a poche strade di distanza. Poi abbiamo scoperto che avevamo gli stessi interessi: scrivere, sia testi che canzoni. E da lì è cominciata una comunicazione continua, finché un giorno io non gli ho proposto di parlare della sua musica, di come abbia cominciato a comporre canzoni ecc. E questo è quello che è uscito fuori:
'Sono
convinto che tutto quello che facciamo come individui nasca da un’urgenza
profonda.
L’urgenza
di essere.
Ho
cominciato a comporre che ero appena adolescente. E mi ricordo ancora che le
prime volte che i miei amici mi canzonavano, letteralmente, a me non importava
niente, perché non mi ero mai sentito così bene.
L’aver
creato qualcosa che sarebbe rimasto nell’immaginario collettivo per il maggior
tempo possibile mi faceva sentire vivo.
Ancora
adesso, niente è come sentire amici soprappensiero mugugnare mozziconi di cose
che ho scritto.
Perché
significa che qualcuno di quei semi che ho sparso in questi cinque o sei anni,
ed ho coltivato con lacrime e sangue, è germogliato nella vita di qualcun
altro. L’arte è comunicazione.
Non
è stato sempre così però. Quando cominciai ero ancora troppo immaturo per
capire tutto questo, per rendermi conto di quello che stava succedendo.
Scrivevo
per scrivere. E non c’era niente di vero in quello che scrivevo. Mi sedevo alla
scrivania, davanti al computer e mettevo insieme note che non mi dicevano
niente.
Poi
è arrivata la prima chitarra, e mentre provavo a fare il barré, ed imparavo gli
accordi a memoria, le cose sono cominciate a cambiare.
Le
lettere, le note, hanno cominciato ad avere un senso reciproco, ad incastrarsi
prima in parole, poi in versi, poi in strofe. Ma mancava ancora qualcosa. Il
contenuto.
Erano
ancora frasi vuote, non mie, seppur adagiate su una musica nuova, meno
artefatta, derivata per la prima volta dall’approccio diretto con uno strumento
come la chitarra invece che con il freddo schermo di un computer.
A
questo, fortunatamente, ci ha pensato il tempo. Durante il liceo ho cominciato
ad ascoltare musica nuova; ho scoperto gli Strokes, l'Indie britannico, e tutto
quel panorama musicale ed artistico che mi ero lasciato scorrere addosso in
quegli anni adesso improvvisamene si stava ripresentando come un'epifania.
Ho
passato giornate intere a ascoltare musica, a suonare con diversi gruppi la
batteria, a crearmi una identità musicale, finché un’estate non è arrivata
Karolina. E solo adesso, scrivendo di tutto questo, mi rendo conto dell’impatto
che ha avuto quell’esperienza sulla mia vita e su tutto quello che ho scritto
di lì in poi.
Per
la prima volta rigettai su un pezzo di carta tutto quello che avevo provato, e
quello che venne fuori è la prima strofa di un testo. Un testo con dentro il
Sonetto 130 di Shakespeare e tutte le mie emozioni.
“Karolina
ha i piedi gonfi/
gonfi
come avesse camminato/
una
vita a piedi nudi sul selciato.
Karolina
ha sulle labbra/
i segni
di una guerra fredda/
combattuta
senza esclusione di parole
eppure/
Karolina
è/
tutto
ciò che fa per me"
Da
allora è stato un viaggio in discesa. Musicalmente parlando.
Perchè
per quanto mi piacerebbe riuscire a scrivere quando sto bene, gli unici
momenti, le cose che riesco ad esprimere meglio sono i sentimenti che mi fanno
stare male, quelli che lasciano un segno.
E
mi rendo conto che, anche se in modi diversi, tutto quello che mi sento di
condividere nasce con la speranza di far provare agli altri quello che ho
provato io.
Così
è nato “Cento giorni da pecora”.
Con
la sola esclusione di “Karolina” (che rappresenta una eccezione anche rispetto
alla cifra stilistica di tutti gli altri brani) tutto l'EP è nato da sentimenti
che mi sono portato dietro, da Roma fino in Inghilterra, che hanno infestato la
mia testa per mesi, e che ogni tanto sono riuscito a decifrare, a domare, ed a
mettere nero su bianco. Sentimenti che sono morti nella mia bocca, incapace di
pronunciarli, ma che sono rinati sotto forma di melodie acerbe, davanti allo
specchio.
Melodie
che ho mescolato con tutto quel' Indie/pop/rock/alternative italiano di cui mi
sono nutrito in questi ultimi tempi tra i quali per esempio I Cani e L'orso,
solo per citare i più influenti.
Mi
riesce
difficile quindi costringere queste canzoni in un singolo genere musicale, una
sola etichetta, quando per me sono il risultato di mille stimoli diversi,
provenienti da svariate direzioni.
Ma
mi piace pensare di star facendo qualcosa di nuovo, “musica umile”.
Le
mie canzoni non sono giardini pensili, né prati sfarzosi. Sono Myricae da coltivare, non per renderle
più grandi, o più imponenti, ma più curate, più potenti nella loro semplicità.
Perchè
è facile nascondersi dietro a convulsi tecnicismi, o assurde complessità.
Mentre
invece quello che offro io con la mia musica è il mio cuore su piatto di carta,
senza mistificazioni, senza accessorie distrazioni; sentimento puro, senza un
motivo d'essere se non quello di germogliare nella testa di chi ha la pazienza
di ascoltare'.
Per chi volesse ascoltare le sue canzoni questa è la sua pagina! https://www.facebook.com/pages/The-more-the-merrier/252732704852165?fref=ts